Vintrusco
Cerveteri è una graziosa località a nord di Roma, le cui origini risalgono a migliaia di anni fa, fu abitata per molti secoli dal popolo Etrusco. Kaisra per gli etruschi, Agilla per i Greci, Caere per i Romani, Cerveteri fu una delle più importanti città stato dell’Etruria, regione storico-geografica dell’Italia centrale. Gli Etruschi erano chiamati Tirreni dai Greci e da loro prende nome il mar Tirreno, mare dove si affaccia la città di Cerveteri.
Quando beviamo un bicchiere di vino, magari anche buono, non ci rendiamo conto della storia millenaria che racchiude miti, leggende e fatiche umane per produrre il “nettare degli Dei”, fiore all’occhiello del comune di Cerveteri.
La combinazione tra natura del terreno e fattori climatici ha fatto della zona ceretana, un’area altamente vocata alla produzione di vini di pregio sin dal tempo degli Etruschi.
“Essi abitano in una regione che produce di tutto e, impegnandosi nel lavoro,
hanno frutti con cui possono non solo nutrirsi a sufficienza,
ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso”
Diodoro Siculo (I sec. a. C.).
La vite è una pianta presente nel territorio dell’Etruria da diverse centinaia di secoli prima degli Etruschi. Per la maturazione dei suoi frutti, ha bisogno della luce e del calore del sole e per questo scopo tende ad arrampicarsi ad un alto albero per raggiungere il soleggiamento necessario.
Il vino e i vigneti furono un elemento importante per gli Etruschi sia per il valore economico, che sociale e religioso. In Italia fu questo popolo a produrre per primo il “temetum”, antico nome del vino, ottenuto dalla spremitura di uva selvatica.
Ma come iniziarono gli Etruschi a coltivare la vite? Ai margini dei torrenti, dove c’erano gli immondezzai degli abitati, tra i resti organici, erano presenti anche i semi dei frutti che venivano consumati nei pasti tra cui quelli dell’uva selvatica. Da questi semi crescevano le piantine di vite e si presume che fu così che gli Etruschi iniziarono la domesticazione e l’allevamento di questa preziosa pianta che nasceva spontaneamente in quei luoghi che furono chiamati “lambruscaie”, nome che deriva dall’accostamento dei sostantivi labrum (orlo, margine) e ruscum (rovo, pianta spontanea).
Gli Etruschi per coltivare la vite adottarono il metodo che vedevano in natura, cioè, far arrampicare la pianta ad un albero. L’associazione della vite ad un supporto alberato, in lingua etrusca veniva chiamato “àitason”, conosciuta come “vite etrusca” o “vite maritata” poiché essa appare come sposata all’albero che la sostiene.
Oggi siamo abituati a vedere immense coltivazioni di vite a filari. L’allevamento a vite maritata permetteva agli Etruschi una coltivazione promiscua dei campi, consentendo loro di utilizzare i terreni per altre produzioni come per esempio grano e cereali.
Grazie ai contatti che ebbero con i Greci, gli Etruschi impararono altre tecniche di coltivazione e a scegliere varietà migliori di viti. Appresero un metodo di vinificazione più avanzato che permise loro una produzione di vino abbondante e costante. Il temetum prese il nome latino “vinum” che deriva dal greco antico “óinos”, e i Greci stessi chiamarono l’Italia “Enotria tellus”, cioè, “terra del vino”.
Gli Etruschi, data l’abbondante produzione, usavano il vino anche come merce di scambio barattandolo con prodotti a loro essenziali. Con l’introduzione del denaro ebbe inizio un vero e proprio commercio.
Relitti di imbarcazioni etrusche sono stati rinvenuti sul fondale marino del litorale tirrenico. Lungo le coste a sud della Francia, sono stati ritrovati i resti di una nave con il suo carico di centosettanta anfore vinarie.
Da studi e analisi effettuati sulle anfore vinarie rinvenute, è emerso che in elevate quantità sono di produzione ceretana. Da Pyrgi, porto di Kaisra, l’attuale Cerveteri, partivano dunque navi cariche di anfore di vino, olio e preziose ceramiche. Le merci trasportate raggiungevano l’Africa settentrionale, l’Andalusia, la Provenza, la Linguadoca e altri porti della costa tirrenica.
Il ritrovamento di numerosi resti navali testimonia oltre alla talassocrazia del popolo Etrusco, la grande notorietà dei loro vini ed il notevole volume degli scambi commerciali marittimi.
Oltre alle loro mercanzie, gli Etruschi portarono la coltura della vite e le tecniche di vinificazione nelle zone centro-settentrionali della nostra penisola fino alla Francia dove in quell’epoca, la sua coltivazione, era pressoché sconosciuta. Fu quindi l’antico popolo Etrusco ad insegnare ai francesi come fare il vino.
Questa vasta espansione economica, dovuta anche alla grande produzione di vino, portò l’Etruria divenire oggetto di conquista di molte popolazioni coeve, tra cui quella romana.
Gli Etruschi ebbero con i Greci scambi leggendari e di figure mitologiche di Dei come, per esempio, Dionisio Dio del vino. In Etruria, Dionisio venne identificato in Pacha, ovvero Fufluns, Dio etrusco patrono della vendemmia, del vino e dell’estasi, degli alberi e della fecondità. In onore di Fufluns, venivano officiati riti misterici con libagioni, sacrifici di animali e dove era importante la presenza femminile.
Sacra al dio Fufluns, la coltivazione della vite, fu definita con tecniche e regole di trattamento che stabilivano, ad esempio, che la potatura dei tralci abbarbicati agli alberi doveva essere lunga e che era fatto divieto di adoperare il vino proveniente da vigneti non potati secondo le norme per le libagioni agli Dei.
Il regno di Fufluns costituiva la parte finale del banchetto: il “symposium”, che significa bere insieme. Prima dell’inizio del simposio venivano cantati inni e fatte libagioni in onore del Dio.
L’usanza del banchetto è stata assimilata dagli Etruschi attraverso i contatti con il popolo greco, adattandolo alla loro cultura.
“Portami un orcio, ragazzo,
ch’io tracanni d’un fiato,
mescimi dieci misure
d’acqua e cinque di vino,
perché di nuovo io celebri
senza violenza Dioniso”
[…]
(Anacreonte)
Presso i Greci bere vino puro era ritenuta usanza barbara, per cui il vino veniva annacquato. L’acqua era di solito in misura prevalente, nella proporzione di tre a uno, una miscela debole, anche perché il vino utilizzato dai Greci aveva un’altissima gradazione alcolica. Parti eguali di acqua e vino erano già considerate ubriacanti. Nello stesso modo gli Etruschi diluivano il vino, con l’aggiunta di miele, petali di fiori e anche formaggio grattugiato per correggere il sapore.
La mescolanza avveniva in un grande recipiente chiamato cratere, famoso è quello di Eufronio, trafugato dai tombaroli in una delle necropoli di Cerveteri. Venduto ed esposto al Metropolitan Museum di New York, dopo lunghe trattative ed accordi, i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale hanno riportato in Italia il prezioso reperto.
Il simposio greco era discriminante nei confronti delle donne che non erano ammesse a parteciparvi, ad eccezione delle cortigiane, delle danzatrici, delle suonatrici che finivano poi per concedersi ai simposiasti.
Nella cultura etrusca, al contrario, le donne godevano di una alta considerazione e potevano partecipare al simposio come largamente documentato sia nelle pitture funerarie tombali che nelle raffigurazioni sulle ceramiche e dalle sculture.
Il celeberrimo “Sarcofago degli Sposi “, ritrovato nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri, raffigura una coppia di sposi distesi su un triclinio, tipico lettino sul quale si adagiavano i commensali, è la testimonianza che la donna etrusca ricopriva un importante ruolo nella società.
Nel diritto romano esisteva lo “ius osculi”, cioè il diritto al bacio. Non era, come può sembrare, un gesto amoroso da parte dell’uomo, ma consisteva nel saggiare se l’alito della donna congiunta sapesse di vino. Bere vino per una donna era comparato all’adulterio e poteva essere punita persino con la morte.
“Qualunque donna sia smodatamente avida di vino chiude la porta alla virtù e la apre ai vizi”
scriveva lo storico Valerio Massimo nel I sec. a.C.
La caduta dell’Impero Romano e le invasioni barbariche segnarono l’abbandono dell’agricoltura compresa quella della viticoltura. A Cerveteri, come in altre zone dell’Etruria e dell’Italia, in quell’epoca si registra un crescente spopolamento delle zone agricole con conseguente abbandono dei campi coltivati.
Alla fine del XII sec. una grave epidemia di malaria colpì la popolazione ceretana. Gli abitanti di Caere furono costretti a trasferirsi nella vicina Ceri. L’allontanamento dal vecchio insediamento segnò il definitivo abbandono delle campagne trasformando il territorio in zona incolta. I vini di qualità divennero un ricordo antico.
La coltivazione della vite riuscì a resistere grazie all’opera dei monaci che praticavano la vitivinicoltura per soddisfare i bisogni di vino per l’uso liturgico. Quella che sopravvisse al mondo antico era comunque una viticoltura fortemente ridimensionata, se pur amorevolmente curata e protetta da una proprietà ecclesiastica alla quale era indispensabile, come si è detto, per le pratiche liturgiche. La vite si ridusse così a essere coltivata in orti o spazi ben recintati, ai margini dei villaggi o all’interno stesso delle mura di città ormai in gran parte diroccate e semi spopolate.
«Templa, domos, vites, oleas, pomeria struxit»
“Costruì palazzi e case e piantò viti, olivi e alberi da frutto”
È il lapidario elogio che viene fatto nell’iscrizione funebre di un abate del IX secolo e che potrebbe essere esteso a tutti gli ecclesiastici del tempo.
Alla viticoltura monastica, si affiancò ben presto una viticoltura laica e signorile. Il consumo del vino, come ai tempi degli Etruschi, era un vero e proprio status symbol. Le regole monastiche femminili concedevano vino in minor quantità rispetto a quelle maschili. Era opinione diffusa che la donna consumasse meno forze e perciò doveva mangiare e bere meno.
In alcuni testi dell’epoca si legge: «dar molto da mangiare ai figli maschi; le donne basta solo nutrirle». In Roman de la Rose, un’importante opera letteraria francese del 1250 circa, vengono dati alle dame dell’epoca consigli preziosi sul modo di bere il vino: «E beva a poco a poco sebbene ne abbia gran voglia e non beva d’un fiato la coppa colma, ma a piccoli sorsi».
Favorita inizialmente per puri scopi alimentari e di prestigio dopo il Mille la vitivinicoltura ritornò ad essere di nuovo fonte di sicuro reddito economico. La costruzione di manieri e la diffusione del vigneto nelle campagne, sono fenomeni così correlati tra di loro nell’epoca medioevale, da porre la vigna come elemento costante ai piedi del castello nel tipico paesaggio rurale d’età feudale.
“Sia benedetto chi
per primo inventò il vino
che tutto il giorno mi fa stare allegro.”
Cecco Angiolieri, poeta senese (1260-1312 circa)
I medici medievali hanno un’opinione altamente positiva del consumo del vino, purché moderato. All’interno del Regimen Sanitatis Salernitanum, testo molto in voga nel Basso Medioevo, il buon vino, in particolare quello rosso è considerato non soltanto benefico per la salute, ma anche una vera e propria medicina. Arnaldo di Villanova, autore del trattato, sostiene che anche la carne di maiale se consumata insieme al vino costituisca una medicina, utile per mantenere un buono stato di salute. All’interno del testo ritroviamo un passo dove l’autore consiglia, qualora si provi fastidio nel consumare vino alla sera, di berlo alla mattina e in questo modo costituirà una medicina.
Il vino non è il prodotto della natura, è il prodotto della cultura e degli scambi culturali, della scienza, degli esperimenti che l’essere umano ha compiuto nel corso dei millenni per produrre il vino come lo beviamo oggi.
Durante le loro conquiste, i romani ebbero contatti con popolazioni del nord Europa che utilizzavano le botti di legno per conservare e trasportare il vino. Più leggere e maneggevoli, le botti sostituirono le pesanti anfore di terracotta.
Il vino, nel Medioevo, veniva consumato come al tempo degli Etruschi, aggiungendo acqua, spezie e miele per rendere più gradevole il sapore che si alterava nel tempo. Durante i secoli, furono sperimentati metodi per migliorare la conservazione del vino e renderla più duratura.
Le prime testimonianze di bottiglie prodotte con vetro soffiato a canna, si hanno sin dal I sec. a.C. La fragilità del vetro rendeva inadatta la bottiglia come recipiente per il trasporto del vino, veniva quindi utilizzata prevalentemente per il servizio in tavola. Nel 1652, in Inghilterra venne scoperto il metodo per far acquisire al vetro più robustezza. L’utilizzo della bottiglia e del tappo di sughero, provocarono una rivoluzione nel mondo del vino sia per il trasporto che per la conservazione, dando inizio alla produzione di vini che migliorano con l’invecchiamento.
Sin dal tempo degli Etruschi, vi era la necessità di riconoscere il contenuto dei recipienti che venivano trasportati e/o conservati nei magazzini.
Gli Etruschi incidevano sulle anfore il nome del vino e il luogo di provenienza. La stessa operazione sarà compiuta più avanti anche sulle botti di legno. Tale pratica venne usata fino a quando iniziò a diffondersi l’uso della bottiglia di vetro.
La diffusione delle bottiglie di vetro insieme alla crescente varietà di vini prodotti, creò sempre più la necessità di un’agile, sicura e precisa identificazione dei vini stessi, sia sotto il profilo dell’origine, sia sotto quello della qualità. È proprio in questo periodo che nasce e si diffonde quella che tutti noi oggi chiamiamo comunemente “etichetta”.
La più antica è quella scritta dal monaco benedettino Pierre Pérignon. Il monaco, per non confondere le annate e le vigne di origine dei vini che produceva, etichettò le sue bottiglie con una particolare pergamena legata al collo della bottiglia con uno spago.
I nobili servivano il vino in caraffe ornate da una placca di peltro o di argento su cui veniva inciso il nome del vino contenuto. Tali metodi, essendo molto costosi, vennero sostituiti da etichette di carta scritte a mano con inchiostro nero.
L’etichetta subì una trasformazione radicale alla fine del 1700 con l’invenzione della litografia. Tale sistema permetteva di stampare più copie della stessa etichetta. Con il perfezionamento delle nuove tecniche di stampa le etichette assunsero una nuova veste grafica ed artistica per opera di artigiani e pittori.
Le etichette del XIX secolo non risaltavano di certo la qualità del vino, ma davano ampio spazio all’immaginazione e alla fantasia riportando spesso immagini che traevano spunto dalla vita contadina o dall’araldica, riproducendo ad esempio stemmi, medaglie o targhe appartenenti alle famiglie produttrici. Questo fino al 1950, anno in cui la legge impose un’etichetta più didascalica e sempre più descrittiva del vino.
Nel XIX Secolo, compare la prima controetichetta grazie a Giulio della Cremosina, che fece apportare sulle sue bottiglie un piccolo pezzo di carta in cui vi erano indicati l’anno della raccolta, del periodo in cui veniva imbottigliato il vino ed una piccola descrizione delle tecniche enologiche impiegate. Le etichette si sono trasformate in vere e proprie carte di identità del vino contenuto nelle bottiglie.
Le etichette con raffigurazioni a tema Etrusco, adottate dai vitivinicultori di Cerveteri, sono nate dalla ricerca di un collegamento tra passato e presente, per mettere in luce le proprie origini con un tocco di modernità. Il tutto trae ispirazione dal territorio sul quale sorge una necropoli etrusca che ha portato alla luce numerosi ed importanti reperti archeologici che hanno consentito di scrivere la storia del vino. Da qui l’idea di utilizzare sulle etichette simboli dell’alfabeto etrusco, statuette, raffigurazioni del Dio Fufluns ed altre immagini relative alla zona etrusca, mantenendo ovviamente il logo dell’azienda.
Nel territorio di Cerveteri è presente una realtà di inclusione lavorativa di persone disabili. Una nota azienda vitivinicola e un’Associazione costituita per l’integrazione sociale e lavorativa di persone diversamente abili collaborano tra loro e si adoperano per creare le condizioni per le quali tutti, indistintamente, possano prendere parte al processo produttivo in maniera equa e più rispondente alle proprie caratteristiche.
La collaborazione di queste due importanti entità del territorio permette alle persone diversamente abili, la realizzazione di etichette. Le etichette per bottiglie di vino, oltre ad essere delle importanti carte d’identità del vino stesso, agiscono come biglietti da visita che l’azienda mette in mano all’acquirente. Un consumatore appassionato, compra un vino non conoscendo personalmente chi c’è dietro alla produzione, ma basandosi su quanto è riportato in etichetta. L’etichetta svolge una funzione fondamentale anche a livello di marketing e affidando ai disabili dell’Associazione, l’Azienda vitivinicola dimostrata la profonda vocazione nella politica dell’inclusione di soggetti portatori di handicap.
La terra abbraccia figurativamente il vino perché da essa nascono i frutti responsabili della sua origine ed essa è fonte del suo nutrimento e del suo carattere. La terra abbraccia il vino anche letteralmente: dalla terra sono prodotte le anfore che per secoli lo hanno contenuto, mantenuto e trasportato in ogni suo viaggio.
Il viaggio del vino non è finito, anzi, ha iniziato un nuovo cammino ritornando indietro di duemilasettecento anni fa. Un noto vitivinicoltore toscano, dopo anni di ricerche, affiancato da storici, archeologi, dottori in agraria, geologi, mastri cocciai, ha riprodotto il vino alla maniera degli Etruschi. Una delle caratteristiche del metodo adottato, è di far maturare il vino in orci di terracotta posizionate tre metri sottoterra.
Il vino, come abbiamo visto, ha profonde radici nella nostra cultura. Mentre un tempo era componente abituale dell’alimentazione, è attualmente sempre più bevanda “d’occasione”. Il vino è passato dall’anfora, alla botte e alla damigiana, dal barile e dal fiasco, alle eleganti bottiglie ornate da artistiche etichette. Dai banchetti ai simposi, dai riti religiosi e funebri ai raffinati incontri gastronomici, nei quali impassabili sommelier fungono, come i simposiarchi etruschi, da officianti di un rituale sacro.
Le caratteristiche organolettiche ed i profumi del vino, nel linguaggio dei degustatori vengono assimilati ai frutti di bosco, alla vaniglia, alla violetta, alla mostarda, all’erbaceo, alle spezie, al cuoio vecchio ecc., e non importa se sia sorseggiato da boccali, da anonimi bicchieri sul banco delle osterie o artistici calici studiati per esaltarle.
Nessun altro prodotto della terra come il vino, viene determinato e personalizzato nelle sue caratteristiche qualitative, dall’influenza della combinazione suolo-clima. Il vino è messaggero di storia, cultura e tradizione del territorio di produzione.
Nel territorio Cerite la produzione del vino, frutto della cultura millenaria della Vite, si tramanda da generazioni, custodita ed interpretata, oggi come allora, per le future progenie.
(Testo di Emanuela Battistello)
PODCAST
VIDEO
Intervista a Liborio De Rinaldis, imprenditore vinicolo, e Filippo Bellantone, Parco degli Angeli
Vintrusco
Cerveteri è una graziosa località a nord di Roma, le cui origini risalgono a migliaia di anni fa, fu abitata per molti secoli dal popolo Etrusco. Kaisra per gli etruschi, Agilla per i Greci, Caere per i Romani, Cerveteri fu una delle più importanti città stato dell’Etruria, regione storico-geografica dell’Italia centrale. Gli Etruschi erano chiamati Tirreni dai Greci e da loro prende nome il mar Tirreno, mare dove si affaccia la città di Cerveteri.
Quando beviamo un bicchiere di vino, magari anche buono, non ci rendiamo conto della storia millenaria che racchiude miti, leggende e fatiche umane per produrre il “nettare degli Dei”, fiore all’occhiello del comune di Cerveteri.
La combinazione tra natura del terreno e fattori climatici ha fatto della zona ceretana, un’area altamente vocata alla produzione di vini di pregio sin dal tempo degli Etruschi.
“Essi abitano in una regione che produce di tutto e, impegnandosi nel lavoro,
hanno frutti con cui possono non solo nutrirsi a sufficienza,
ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso”
Diodoro Siculo (I sec. a. C.).
La vite è una pianta presente nel territorio dell’Etruria da diverse centinaia di secoli prima degli Etruschi. Per la maturazione dei suoi frutti, ha bisogno della luce e del calore del sole e per questo scopo tende ad arrampicarsi ad un alto albero per raggiungere il soleggiamento necessario.
Il vino e i vigneti furono un elemento importante per gli Etruschi sia per il valore economico, che sociale e religioso. In Italia fu questo popolo a produrre per primo il “temetum”, antico nome del vino, ottenuto dalla spremitura di uva selvatica.
Ma come iniziarono gli Etruschi a coltivare la vite? Ai margini dei torrenti, dove c’erano gli immondezzai degli abitati, tra i resti organici, erano presenti anche i semi dei frutti che venivano consumati nei pasti tra cui quelli dell’uva selvatica. Da questi semi crescevano le piantine di vite e si presume che fu così che gli Etruschi iniziarono la domesticazione e l’allevamento di questa preziosa pianta che nasceva spontaneamente in quei luoghi che furono chiamati “lambruscaie”, nome che deriva dall’accostamento dei sostantivi labrum (orlo, margine) e ruscum (rovo, pianta spontanea).
Gli Etruschi per coltivare la vite adottarono il metodo che vedevano in natura, cioè, far arrampicare la pianta ad un albero. L’associazione della vite ad un supporto alberato, in lingua etrusca veniva chiamato “àitason”, conosciuta come “vite etrusca” o “vite maritata” poiché essa appare come sposata all’albero che la sostiene.
Oggi siamo abituati a vedere immense coltivazioni di vite a filari. L’allevamento a vite maritata permetteva agli Etruschi una coltivazione promiscua dei campi, consentendo loro di utilizzare i terreni per altre produzioni come per esempio grano e cereali.
Grazie ai contatti che ebbero con i Greci, gli Etruschi impararono altre tecniche di coltivazione e a scegliere varietà migliori di viti. Appresero un metodo di vinificazione più avanzato che permise loro una produzione di vino abbondante e costante. Il temetum prese il nome latino “vinum” che deriva dal greco antico “óinos”, e i Greci stessi chiamarono l’Italia “Enotria tellus”, cioè, “terra del vino”.
Gli Etruschi, data l’abbondante produzione, usavano il vino anche come merce di scambio barattandolo con prodotti a loro essenziali. Con l’introduzione del denaro ebbe inizio un vero e proprio commercio.
Relitti di imbarcazioni etrusche sono stati rinvenuti sul fondale marino del litorale tirrenico. Lungo le coste a sud della Francia, sono stati ritrovati i resti di una nave con il suo carico di centosettanta anfore vinarie.
Da studi e analisi effettuati sulle anfore vinarie rinvenute, è emerso che in elevate quantità sono di produzione ceretana. Da Pyrgi, porto di Kaisra, l’attuale Cerveteri, partivano dunque navi cariche di anfore di vino, olio e preziose ceramiche. Le merci trasportate raggiungevano l’Africa settentrionale, l’Andalusia, la Provenza, la Linguadoca e altri porti della costa tirrenica.
Il ritrovamento di numerosi resti navali testimonia oltre alla talassocrazia del popolo Etrusco, la grande notorietà dei loro vini ed il notevole volume degli scambi commerciali marittimi.
Oltre alle loro mercanzie, gli Etruschi portarono la coltura della vite e le tecniche di vinificazione nelle zone centro-settentrionali della nostra penisola fino alla Francia dove in quell’epoca, la sua coltivazione, era pressoché sconosciuta. Fu quindi l’antico popolo Etrusco ad insegnare ai francesi come fare il vino.
Questa vasta espansione economica, dovuta anche alla grande produzione di vino, portò l’Etruria divenire oggetto di conquista di molte popolazioni coeve, tra cui quella romana.
Gli Etruschi ebbero con i Greci scambi leggendari e di figure mitologiche di Dei come, per esempio, Dionisio Dio del vino. In Etruria, Dionisio venne identificato in Pacha, ovvero Fufluns, Dio etrusco patrono della vendemmia, del vino e dell’estasi, degli alberi e della fecondità. In onore di Fufluns, venivano officiati riti misterici con libagioni, sacrifici di animali e dove era importante la presenza femminile.
Sacra al dio Fufluns, la coltivazione della vite, fu definita con tecniche e regole di trattamento che stabilivano, ad esempio, che la potatura dei tralci abbarbicati agli alberi doveva essere lunga e che era fatto divieto di adoperare il vino proveniente da vigneti non potati secondo le norme per le libagioni agli Dei.
Il regno di Fufluns costituiva la parte finale del banchetto: il “symposium”, che significa bere insieme. Prima dell’inizio del simposio venivano cantati inni e fatte libagioni in onore del Dio.
L’usanza del banchetto è stata assimilata dagli Etruschi attraverso i contatti con il popolo greco, adattandolo alla loro cultura.
“Portami un orcio, ragazzo,
ch’io tracanni d’un fiato,
mescimi dieci misure
d’acqua e cinque di vino,
perché di nuovo io celebri
senza violenza Dioniso”
[…]
(Anacreonte)
Presso i Greci bere vino puro era ritenuta usanza barbara, per cui il vino veniva annacquato. L’acqua era di solito in misura prevalente, nella proporzione di tre a uno, una miscela debole, anche perché il vino utilizzato dai Greci aveva un’altissima gradazione alcolica. Parti eguali di acqua e vino erano già considerate ubriacanti. Nello stesso modo gli Etruschi diluivano il vino, con l’aggiunta di miele, petali di fiori e anche formaggio grattugiato per correggere il sapore.
La mescolanza avveniva in un grande recipiente chiamato cratere, famoso è quello di Eufronio, trafugato dai tombaroli in una delle necropoli di Cerveteri. Venduto ed esposto al Metropolitan Museum di New York, dopo lunghe trattative ed accordi, i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale hanno riportato in Italia il prezioso reperto.
Il simposio greco era discriminante nei confronti delle donne che non erano ammesse a parteciparvi, ad eccezione delle cortigiane, delle danzatrici, delle suonatrici che finivano poi per concedersi ai simposiasti.
Nella cultura etrusca, al contrario, le donne godevano di una alta considerazione e potevano partecipare al simposio come largamente documentato sia nelle pitture funerarie tombali che nelle raffigurazioni sulle ceramiche e dalle sculture.
Il celeberrimo “Sarcofago degli Sposi “, ritrovato nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri, raffigura una coppia di sposi distesi su un triclinio, tipico lettino sul quale si adagiavano i commensali, è la testimonianza che la donna etrusca ricopriva un importante ruolo nella società.
Nel diritto romano esisteva lo “ius osculi”, cioè il diritto al bacio. Non era, come può sembrare, un gesto amoroso da parte dell’uomo, ma consisteva nel saggiare se l’alito della donna congiunta sapesse di vino. Bere vino per una donna era comparato all’adulterio e poteva essere punita persino con la morte.
“Qualunque donna sia smodatamente avida di vino chiude la porta alla virtù e la apre ai vizi”
scriveva lo storico Valerio Massimo nel I sec. a.C.
La caduta dell’Impero Romano e le invasioni barbariche segnarono l’abbandono dell’agricoltura compresa quella della viticoltura. A Cerveteri, come in altre zone dell’Etruria e dell’Italia, in quell’epoca si registra un crescente spopolamento delle zone agricole con conseguente abbandono dei campi coltivati.
Alla fine del XII sec. una grave epidemia di malaria colpì la popolazione ceretana. Gli abitanti di Caere furono costretti a trasferirsi nella vicina Ceri. L’allontanamento dal vecchio insediamento segnò il definitivo abbandono delle campagne trasformando il territorio in zona incolta. I vini di qualità divennero un ricordo antico.
La coltivazione della vite riuscì a resistere grazie all’opera dei monaci che praticavano la vitivinicoltura per soddisfare i bisogni di vino per l’uso liturgico. Quella che sopravvisse al mondo antico era comunque una viticoltura fortemente ridimensionata, se pur amorevolmente curata e protetta da una proprietà ecclesiastica alla quale era indispensabile, come si è detto, per le pratiche liturgiche. La vite si ridusse così a essere coltivata in orti o spazi ben recintati, ai margini dei villaggi o all’interno stesso delle mura di città ormai in gran parte diroccate e semi spopolate.
«Templa, domos, vites, oleas, pomeria struxit»
“Costruì palazzi e case e piantò viti, olivi e alberi da frutto”
È il lapidario elogio che viene fatto nell’iscrizione funebre di un abate del IX secolo e che potrebbe essere esteso a tutti gli ecclesiastici del tempo.
Alla viticoltura monastica, si affiancò ben presto una viticoltura laica e signorile. Il consumo del vino, come ai tempi degli Etruschi, era un vero e proprio status symbol. Le regole monastiche femminili concedevano vino in minor quantità rispetto a quelle maschili. Era opinione diffusa che la donna consumasse meno forze e perciò doveva mangiare e bere meno.
In alcuni testi dell’epoca si legge: «dar molto da mangiare ai figli maschi; le donne basta solo nutrirle». In Roman de la Rose, un’importante opera letteraria francese del 1250 circa, vengono dati alle dame dell’epoca consigli preziosi sul modo di bere il vino: «E beva a poco a poco sebbene ne abbia gran voglia e non beva d’un fiato la coppa colma, ma a piccoli sorsi».
Favorita inizialmente per puri scopi alimentari e di prestigio dopo il Mille la vitivinicoltura ritornò ad essere di nuovo fonte di sicuro reddito economico. La costruzione di manieri e la diffusione del vigneto nelle campagne, sono fenomeni così correlati tra di loro nell’epoca medioevale, da porre la vigna come elemento costante ai piedi del castello nel tipico paesaggio rurale d’età feudale.
“Sia benedetto chi
per primo inventò il vino
che tutto il giorno mi fa stare allegro.”
Cecco Angiolieri, poeta senese (1260-1312 circa)
I medici medievali hanno un’opinione altamente positiva del consumo del vino, purché moderato. All’interno del Regimen Sanitatis Salernitanum, testo molto in voga nel Basso Medioevo, il buon vino, in particolare quello rosso è considerato non soltanto benefico per la salute, ma anche una vera e propria medicina. Arnaldo di Villanova, autore del trattato, sostiene che anche la carne di maiale se consumata insieme al vino costituisca una medicina, utile per mantenere un buono stato di salute. All’interno del testo ritroviamo un passo dove l’autore consiglia, qualora si provi fastidio nel consumare vino alla sera, di berlo alla mattina e in questo modo costituirà una medicina.
Il vino non è il prodotto della natura, è il prodotto della cultura e degli scambi culturali, della scienza, degli esperimenti che l’essere umano ha compiuto nel corso dei millenni per produrre il vino come lo beviamo oggi.
Durante le loro conquiste, i romani ebbero contatti con popolazioni del nord Europa che utilizzavano le botti di legno per conservare e trasportare il vino. Più leggere e maneggevoli, le botti sostituirono le pesanti anfore di terracotta.
Il vino, nel Medioevo, veniva consumato come al tempo degli Etruschi, aggiungendo acqua, spezie e miele per rendere più gradevole il sapore che si alterava nel tempo. Durante i secoli, furono sperimentati metodi per migliorare la conservazione del vino e renderla più duratura.
Le prime testimonianze di bottiglie prodotte con vetro soffiato a canna, si hanno sin dal I sec. a.C. La fragilità del vetro rendeva inadatta la bottiglia come recipiente per il trasporto del vino, veniva quindi utilizzata prevalentemente per il servizio in tavola. Nel 1652, in Inghilterra venne scoperto il metodo per far acquisire al vetro più robustezza. L’utilizzo della bottiglia e del tappo di sughero, provocarono una rivoluzione nel mondo del vino sia per il trasporto che per la conservazione, dando inizio alla produzione di vini che migliorano con l’invecchiamento.
Sin dal tempo degli Etruschi, vi era la necessità di riconoscere il contenuto dei recipienti che venivano trasportati e/o conservati nei magazzini.
Gli Etruschi incidevano sulle anfore il nome del vino e il luogo di provenienza. La stessa operazione sarà compiuta più avanti anche sulle botti di legno. Tale pratica venne usata fino a quando iniziò a diffondersi l’uso della bottiglia di vetro.
La diffusione delle bottiglie di vetro insieme alla crescente varietà di vini prodotti, creò sempre più la necessità di un’agile, sicura e precisa identificazione dei vini stessi, sia sotto il profilo dell’origine, sia sotto quello della qualità. È proprio in questo periodo che nasce e si diffonde quella che tutti noi oggi chiamiamo comunemente “etichetta”.
La più antica è quella scritta dal monaco benedettino Pierre Pérignon. Il monaco, per non confondere le annate e le vigne di origine dei vini che produceva, etichettò le sue bottiglie con una particolare pergamena legata al collo della bottiglia con uno spago.
I nobili servivano il vino in caraffe ornate da una placca di peltro o di argento su cui veniva inciso il nome del vino contenuto. Tali metodi, essendo molto costosi, vennero sostituiti da etichette di carta scritte a mano con inchiostro nero.
L’etichetta subì una trasformazione radicale alla fine del 1700 con l’invenzione della litografia. Tale sistema permetteva di stampare più copie della stessa etichetta. Con il perfezionamento delle nuove tecniche di stampa le etichette assunsero una nuova veste grafica ed artistica per opera di artigiani e pittori.
Le etichette del XIX secolo non risaltavano di certo la qualità del vino, ma davano ampio spazio all’immaginazione e alla fantasia riportando spesso immagini che traevano spunto dalla vita contadina o dall’araldica, riproducendo ad esempio stemmi, medaglie o targhe appartenenti alle famiglie produttrici. Questo fino al 1950, anno in cui la legge impose un’etichetta più didascalica e sempre più descrittiva del vino.
Nel XIX Secolo, compare la prima controetichetta grazie a Giulio della Cremosina, che fece apportare sulle sue bottiglie un piccolo pezzo di carta in cui vi erano indicati l’anno della raccolta, del periodo in cui veniva imbottigliato il vino ed una piccola descrizione delle tecniche enologiche impiegate. Le etichette si sono trasformate in vere e proprie carte di identità del vino contenuto nelle bottiglie.
Le etichette con raffigurazioni a tema Etrusco, adottate dai vitivinicultori di Cerveteri, sono nate dalla ricerca di un collegamento tra passato e presente, per mettere in luce le proprie origini con un tocco di modernità. Il tutto trae ispirazione dal territorio sul quale sorge una necropoli etrusca che ha portato alla luce numerosi ed importanti reperti archeologici che hanno consentito di scrivere la storia del vino. Da qui l’idea di utilizzare sulle etichette simboli dell’alfabeto etrusco, statuette, raffigurazioni del Dio Fufluns ed altre immagini relative alla zona etrusca, mantenendo ovviamente il logo dell’azienda.
Nel territorio di Cerveteri è presente una realtà di inclusione lavorativa di persone disabili. Una nota azienda vitivinicola e un’Associazione costituita per l’integrazione sociale e lavorativa di persone diversamente abili collaborano tra loro e si adoperano per creare le condizioni per le quali tutti, indistintamente, possano prendere parte al processo produttivo in maniera equa e più rispondente alle proprie caratteristiche.
La collaborazione di queste due importanti entità del territorio permette alle persone diversamente abili, la realizzazione di etichette. Le etichette per bottiglie di vino, oltre ad essere delle importanti carte d’identità del vino stesso, agiscono come biglietti da visita che l’azienda mette in mano all’acquirente. Un consumatore appassionato, compra un vino non conoscendo personalmente chi c’è dietro alla produzione, ma basandosi su quanto è riportato in etichetta. L’etichetta svolge una funzione fondamentale anche a livello di marketing e affidando ai disabili dell’Associazione, l’Azienda vitivinicola dimostrata la profonda vocazione nella politica dell’inclusione di soggetti portatori di handicap.
La terra abbraccia figurativamente il vino perché da essa nascono i frutti responsabili della sua origine ed essa è fonte del suo nutrimento e del suo carattere. La terra abbraccia il vino anche letteralmente: dalla terra sono prodotte le anfore che per secoli lo hanno contenuto, mantenuto e trasportato in ogni suo viaggio.
Il viaggio del vino non è finito, anzi, ha iniziato un nuovo cammino ritornando indietro di duemilasettecento anni fa. Un noto vitivinicoltore toscano, dopo anni di ricerche, affiancato da storici, archeologi, dottori in agraria, geologi, mastri cocciai, ha riprodotto il vino alla maniera degli Etruschi. Una delle caratteristiche del metodo adottato, è di far maturare il vino in orci di terracotta posizionate tre metri sottoterra.
Il vino, come abbiamo visto, ha profonde radici nella nostra cultura. Mentre un tempo era componente abituale dell’alimentazione, è attualmente sempre più bevanda “d’occasione”. Il vino è passato dall’anfora, alla botte e alla damigiana, dal barile e dal fiasco, alle eleganti bottiglie ornate da artistiche etichette. Dai banchetti ai simposi, dai riti religiosi e funebri ai raffinati incontri gastronomici, nei quali impassabili sommelier fungono, come i simposiarchi etruschi, da officianti di un rituale sacro.
Le caratteristiche organolettiche ed i profumi del vino, nel linguaggio dei degustatori vengono assimilati ai frutti di bosco, alla vaniglia, alla violetta, alla mostarda, all’erbaceo, alle spezie, al cuoio vecchio ecc., e non importa se sia sorseggiato da boccali, da anonimi bicchieri sul banco delle osterie o artistici calici studiati per esaltarle.
Nessun altro prodotto della terra come il vino, viene determinato e personalizzato nelle sue caratteristiche qualitative, dall’influenza della combinazione suolo-clima. Il vino è messaggero di storia, cultura e tradizione del territorio di produzione.
Nel territorio Cerite la produzione del vino, frutto della cultura millenaria della Vite, si tramanda da generazioni, custodita ed interpretata, oggi come allora, per le future progenie.
(Testo di Emanuela Battistello)
PODCAST
VIDEO
Intervista a Liborio De Rinaldis, imprenditore vinicolo, e Filippo Bellantone, Parco degli Angeli